Somaia Ramish

a cura di Giorgia Pietropaoli

Parole dall’esilio

 15,00

ISBN

9791259992178

pag

154

Spedizione gratuita

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154

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Somaia Ramish ci porta a conoscere l’Afghanistan, un paese ricco di cultura e tradizioni, drammaticamente provato dal regime dei talebani, ma ancora resiliente.

Alla sopraffazione, la Ramish oppone l’arma potente della cultura e di una poesia tutta al femminile.

“Donna, vita e libertà” risuona forte nei suoi versi, che rielaborano in chiave contemporanea la ricca tradizione poetica afghana.

 

Le Parole dall’esilio sono il racconto della quotidiana sofferenza per la lontananza, la nostalgia di una patria perduta, la tragedia quotidiana di chi vede i propri diritti calpestati da un regime brutale che sta cercando di mettere a tacere le voci femminili.

“Carica le poesie come pistole”. Alla violenza e alla sopraffazione del regime talebano, la Ramish oppone l’arma dirompente della cultura e di una poesia tutta al femminile.

“Per vent’anni mi sono battuta contro ogni forma di violenza perpetrata nei confronti delle donne, contro i matrimoni forzati, ho affrontato ogni tipo di problema sociale e politico, in una società con un retaggio ancestrale fortissimo come quella afghana.”

Prefazione di Antonella Napoli

 

Parole dall’esilio by Somaia Ramish – recensione di Laura Fusco 

Lo faccio di rado. Ma quando Somaia mi ha chiesto di scrivere sulla sua raccolta Parole dall’esilio, pubblicata da All Around in farsi/italiano, sono stata contenta di accettare. La sua poesia denuncia e dice come dovere etico fondante. Come ha fatto lei, da attivista per i diritti e politica nel suo paese, l’Afghanistan, come si legge nelle note biografiche dei libri che ha pubblicato in diversi paesi. La poesia come “atto politico”, ora che è apolide e il suo paese lo ha lasciato. Ma le parole, loro, dall’esilio, sono lì a continuare l’opera ora affidata a loro. Spesso ho invitato in miei progetti e collaborato con poeti rifugiati e esuli. Ci accomuna la consapevolezza che l’arte chiede di testimoniare sempre, sia quando la testimonianza richiesta è quella della denuncia che quando è quella della bellezza, in un atto di restituzione. Come non sentirmi chiamata?

La poesia di Ramish è tanto più atto politico quanto più genuino percorso personale, doloroso, dove la memoria è carne viva, “affonda gli artigli in ogni cellula”,. relazione con le radici, complessa, e ferita sempre attuale, “ogni giorno io muoio ancora e ancora”. La segue ovunque “piango in tutti i fusi orari”. Versi brevi, semplici, emozioni nitide e cupe, chiamate con coraggio per nome.

I colori, simboli vitalistici, sembrano riottosi a essere usati, anche quando ci sono e anche se scrive “Mi sono riconciliata con i colori vivaci/con i rossi”. Emergono il bianco e nero, colori della pagina bianca e dell’inchiostro o del fluire delle parole sul pc. Insieme proprio al rosso. Colore che le donne si dipingono sui palmi delle mani e mostrano durante le proteste, a ricordare il sangue di tante altre uccise incarcerate violentate.

Difficile immaginare tutta la portata devastante di uno sradicamento esistenziale come quello che hanno subito e subiscono. In un paese in cui l’identità viene soffocata, qualsiasi diritto calpestato, e è negato perfino quello di ridere progettare e costruirsi liberamente un futuro studiare fare musica. Si resiste, si sfida il potere rischiando carcere e morte, o si chiede asilo e si diventa esuli. E’ così che la geografia esce dall’atlante e diventa “ follia che scorre nelle mie vene”. Ramish scrive in farsi, e per lei come per molti scrittori esuli la lingua diventa patria, casa, cordone ombelicale, radice. Frames di vita, nomi e luoghi cantati ricreano sotto i nostri occhi un atlante di ricordi che sono pezzi dell’anima, alcuni insopportabili e luttuosi, altri dolci, tutti filtro e pietra di paragone costante con la vita attuale, presenze imprescindibili. Nella poesia di Somaia è chiaro come l’esule sia per sempre relegato in un non tempo e non luogo, come paradossalmente gli sia negato di partire, sia come superamento che come abbandono. Il proprio paese diventa un altrove, reso più presente dall’assenza, le radici che si tenta di recidere diventano parti di chi deve andarsene e ne scrive, la propria patria un/il mondo. Ogni città nuova rimanda a un “prima” che non può essere ricomposto o recuperato, ma neanche lasciato andare. Si diventa la propria geografia, “Sulla città più triste del mondo che sono io.”. E si cerca di ricucire frammenti inconciliabili.

Ci sono anche momenti di apertura a una possibile rinascita, brevi come lampi, “qui /anche lo schiaffo del sole è un’esperienza bellissima”, poesie intimiste, compare l’amore.

Un altro motivo per cui ho detto sì a Ramish è che il suo impegno la porta a occuparsi delle altre donne. Attraverso la creazione di Baamdaad, la Casa della Poesia in Esilio, contro la repressione e censura dell’arte. E qui, dedicando una sezione della raccolta a autrici afghane, ribelli piene di consapevolezza e dignità, la cui voce si alza contro il potere, alcune note per la fine violenta subita come la Anjuman, uccisa a 25 anni dal marito, perché scriveva poesie. Attraverso i suoi versi “Malgrado il silenzio che abito da sempre,/il mio cuore non ha dimenticato i canti,/e io non smetto di sussurrare parole di libertà. / Penso al giorno in cui uscirò da questa gabbia / e quelli delle altre riportate da Ramish accanto ai propri, la raccolta diventa un importante atto corale di protesta e resistenza e restituisce alla poesia tutto il suo potere.

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